SOLDATI ITALIANI IN RUSSIA TRA LA GRANDE GUERRA E LA GUERRA CIVILE

Il Corpo di spedizione italiano in Murmania (1918-1919) come riproposizione dell’impresa piemontese in Crimea (1855)

Premessa

Quando si parla di un corpo di spedizione italiano in Russia, la memoria va subito alla terribile ritirata del 1942-1943 sul Don, a Njkolajewka, all’ARMIR, ecc. Quello di cui invece si vuole qui parlare riguarda il periodo immediatamente successivo (addirittura coincidente per breve tempo) il primo conflitto mondiale. Una pagina poco nota al grande pubblico e sulla quale la storiografia ufficiale ha iniziato solo recentemente a gettare sufficiente luce. Siamo di fronte a un corpo di spedizione italiano, inserito in un contingente multinazionale, partito alla volta delle fredde terre russe all’altezza del Circolo Polare Artico quando ancora la Prima guerra mondiale era in corso. La missione vera e propria durò dal settembre 1918 all’agosto 1919 e la zona delle operazioni fu la regione della Murmania (Murmansk) nella Russia settentrionale (l’odierna penisola di Kola) e, più a sud, la Carelia. Questa missione, interforze e a guida inglese, operò in una Russia del nord scossa dalla rivoluzione bolscevica e piegata dalla pace di Brest-Litovsk che, come sappiamo, era stata ampiamente favorevole ai tedeschi. L’intervento alleato può essere sostanzialmente diviso in due fasi: la prima, dall’impronta strettamente militare, ebbe una chiara funzione anti-tedesca mentre la seconda, iniziata con la sconfitta della Germania, fu caratterizzata da una generica politica anti-bolscevica dai contorni operativi non ben definiti. La decisione di intervenire in Russia nel 1918-1919 non fu una scelta dettata dal caso o da un capriccio politico. Essa si inserisce nel lungo solco, fin dall’epoca di Cavour e della guerra di Crimea del 1853-1856, del presenzialismo internazionale di un Paese, il nostro, giovane ma desideroso fin da subito di emergere. Infatti, l’Italia aspirava a trovare la propria dimensione nel novero delle potenze europee nonché di accelerare la conclusione di una guerra che non sembrava aver fine.

I fronti della Guerra Civile Russa con l'indicazione della nostra zona di operazioni

I fronti della Guerra Civile Russa con l’indicazione della nostra zona di operazioni

I preparativi e l’invio delle truppe

Ma procediamo con ordine: nella primavera del 1918 la Russia stava attraversando una profonda crisi politica e militare che la rivoluzione borghese non era riuscita a risolvere proprio a causa della proclamata volontà del nuovo governo, uscito dalla Rivoluzione del febbraio 1917, di continuare a combattere al fianco dell’Intesa, aprendo di conseguenza la strada per la salita al potere ai bolscevichi con la successiva Rivoluzione dell’ottobre dello stesso anno. Sul fronte orientale la situazione era ormai definita e, dopo la già citata pace di  Brest-Litovsk, i tedeschi erano oramai padroni incontrastati di vasti territori, prossimi a prendere il controllo anche della Finlandia al fine di bloccare le linee di rifornimento organizzate dagli Alleati dalla Penisola di Kola, all’estremità nord-occidentale del territorio russo, verso il cuore della Russia. In questa area, importante per qualsiasi proposito dell’Intesa volto a eliminare la minaccia bolscevica, si trovavano grandi depositi di materiale bellico. La Germania, in effetti, mirava a occupare Murmansk e la Penisola di Kola per crearvi eventualmente anche delle basi per i propri sommergibili. Nello stesso periodo l’Italia si stava riprendendo dalla sconfitta di Caporetto mentre, sul piano politico, il governo sembrava finalmente deciso a sostenere una visione complessiva del conflitto, accettando un maggiore impegno allo sforzo bellico alleato. Questo significava, in primo luogo, una maggiore partecipazione e un’aumentata visibilità per i contingenti italiani schierati su altri fronti. Si trattava però più di un’ambizione che di una reale possibilità di affermazione del ruolo internazionale dell’Italia. La decisione di inviare un piccolo contingente in Murmania nella tarda primavera del 1918 sarebbe rientrata proprio in questa dinamica. Una sorta, quindi, di riproposizione della spedizione piemontese in Crimea nel 1855. In quelle settimane del 1918, la Germania era impegnata in un estremo tentativo di rompere le linee nemiche sul fronte occidentale, attraverso le violente offensive che si svilupparono tra il marzo e il luglio del 1918. Nel mese di giugno, anche gli austro-ungarici lanciarono un ultimo assalto alla linea del Piave, fermato con successo dagli italiani. In quei difficili momenti, quando per molti la guerra era lontana da una conclusione e i tedeschi sembravano ancora estremamente pericolosi, divenne necessario considerare l’opportunità di una azione concreta nel nord della Russia, soprattutto dopo che nell’aprile del 1918 le forze germaniche del generale Gustav Rüdiger von der Goltz ebbero occupato Helsinki. L’invio di truppe nel nord della Russia era in effetti stata discussa per la prima volta in una riunione inter-alleata del 23 marzo, con il preciso intento di salvaguardare i materiali presenti nei magazzini dei porti russi in seguito alla firma della pace tra Mosca e gli Imperi centrali. Tuttavia, sarà solamente il 3 giugno 1918 che il Consiglio Supremo Alleato di Versailles deciderà di organizzare l’invio di un corpo di spedizione per presidiare Murmansk e Arcangelo. Le due città erano state negli anni precedenti il terminale delle principali rotte marittime per il rifornimento della Russia e la loro difesa era stata affidata essenzialmente alla Royal Navy al fine di impedire che i sommergibili tedeschi bloccassero questa importante arteria. Inizialmente era stato discusso l’invio di una piccola forza, quantificata in un totale di sei battaglioni, da dividere tra i vari paesi, con un unico comandante ancora da identificare. Di conseguenza, anche l’Italia si dichiarava ora pronta a partecipare a queste operazioni. Il Capo di Stato Maggiore, generale Armando Diaz, aveva però accolto con una certa diffidenza l’idea di un impegno nella regione artica. In un documento del 16 luglio, Diaz affermava infatti che la proposta del Comitato Inter-alleato, che prevedeva la partecipazione di due battaglioni italiani con una batteria di montagna e di varie unità di supporto, pareva eccessivo. Il governo di Roma era però di tutt’altro avviso e deciso a dimostrare la sua partecipazione allo sforzo bellico alleato, per poter in tal modo affermare sul piano diplomatico una parità che era tutt’altro che esistente nella realtà. La decisione era stata influenzata dai contrasti tra autorità politiche, favorevoli all’invio di un contingente altamente rappresentativo e lo Stato Maggiore, sempre preoccupato di disperdere forze su un “fronte inutile”, che in effetti per il Comando Supremo italiano era qualsiasi luogo diverso dall’Italia. A causa di questa divergenza di opinioni si giunse alla decisione dello Stato Maggiore di inviare nel nord della Russia solo un battaglione rinforzato, invece dei due proposti dal governo. In tutto questo, i tedeschi non erano rimasti in attesa. Il 27 agosto, era stato infatti firmato un accordo a Berlino tra la Germania e la Russia sovietica nel quale, tra le altre cose, si affermava che la Russia avrebbe utilizzato tutte le risorse a sua disposizione per espellere le forze dell’Intesa dal proprio territorio nel rispetto della neutralità, mentre dall’altro la Germania assicurava che durante queste operazioni non vi sarebbe stato alcun attacco finlandese al territorio russo. Ne deriva che i russi avrebbero accettato il ruolo che le forze tedesche stavano assumendo in Finlandia, affermando al tempo stesso la propria disponibilità a contrastare i piani dell’Intesa, agendo quasi da alleati di Berlino. D’altro canto, fin dal marzo 1918, i rappresentanti alleati in Russia si erano posti il problema del mantenimento dei rapporti con le forze ostili ai bolscevichi. Per tale motivo Arcangelo era stata individuata quale posto sicuro, lontano dai centri rivoluzionari e in comunicazione diretta con Mosca, quale centro di attrazione di tutti gli elementi anti-tedeschi favorevoli all’Intesa. In questo momento si cominciò a parlare di uno sbarco di truppe alleate ad Arcangelo e i francesi ne informarono direttamente il governo italiano. Dopo aver perfezionato gli accordi, furono stabiliti i dettagli dell’operazione, affidata al comando del britannico generale Frederick C. Poole. Si pensava a una operazione con due priorità: da un lato l’invio di ufficiali e sottufficiali con l’incarico di formare e addestrare una forza locale da contrapporre prima ai tedeschi e poi ai bolscevichi; dall’altra, l’invio di un piccolo contingente alleato con compiti di difesa delle infrastrutture. In questo senso, anche la British Expeditionary Force, affidata al generale Charles Maynard, doveva essere solamente un piccolo nucleo operativo. Nel mese di giugno del 1918 alcuni militari britannici e francesi erano già schierati a Murmansk e ad Arcangelo e i due porti erano presidiati da navi dell’Intesa. Sidney Sonnino, il nostro Ministro degli Esteri, era assolutamente favorevole all’impegno in Russia e concordava con Londra e Parigi in merito all’opportunità di agire il più rapidamente possibile per garantire la sicurezza di Murmansk e di Arcangelo, oltre a organizzare un più ampio impegno militare alleato. Ancora una volta, per il nostro Ministero degli Affari Esteri, era fondamentale dimostrare impegno e determinazione in una visione complessiva del conflitto al fine di affermare il ruolo di grande potenza dell’Italia. A giustificare l’intervento nel nord della Russia vi era anche la speranza di poter costituire una salda posizione dalla quale congiungersi con le forze della Legione Cecoslovacca che, in quel momento, si trovava proprio in Siberia. A comandare le forze italiane fu designato il colonnello Augusto Sifola, fino ad allora al comando di un reparto di bersaglieri. Inizialmente il Corpo di spedizione italiano era composto da un reparto comando, tre compagnie fucilieri, una compagnia mitraglieri, una compagnia di supporto, una sezione carabinieri e altri reparti minori, compreso un ospedale da campo, per un totale di 45 ufficiali e 1.295 uomini di truppa. Il primo scaglione partì per la Russia dal porto francese di Le Havre, sul Canale della Manica, il 14 agosto 1918. Nel frattempo truppe inglesi erano già sul posto dal mese di maggio. Questi reparti erano però afflitti da diversi problemi di salute e quelli in efficienza combattiva erano circa 2.500, tra Royal Marines, francesi, serbi e una legione finnica. Mentre il nemico, in questa fase ancora i tedeschi, disponevano in Finlandia di circa 50.000 uomini. Da notare che gli italiani diffidarono fin dall’inizio dei volontari locali, ritenendoli inaffidabili sul piano militare e con il passare del tempo anche sospetti bolscevichi. Le operazioni nell’area di Murmansk furono caratterizzate inoltre dalla necessità delle nostre truppe di adattarsi alle difficoltà ambientali del clima artico nel periodo invernale e dalle altrettanto complesse condizioni climatiche della stagione calda, in un’area caratterizzata da foreste, laghi e paludi attraverso cui passava un’unica via di comunicazione, la ferrovia Murmansk-Pietrogrado. Nel complesso una regione vastissima, che comprende la penisola di Kola e il cui centro principale è, per l’appunto la cittadina di Murmansk, con il suo porto, situata a una trentina di chilometri a monte della foce del fiume Tuloma. La stessa ferrovia che partiva da Murmansk era il recente risultato di un notevole sforzo logistico realizzato con il supporto inglese e francese nel corso del conflitto e i cui lavori erano stati ultimati solamente nel 1917. La regione di Kola era scarsamente popolata e l’elemento orografico più significativo, anche ai fini di un controllo militare dell’area, era la presenza di numerosi fiumi e laghi, mentre era praticamente assente una rete stradale. In generale, i movimenti erano possibili solo su malconce strade nel periodo secco tra luglio e agosto, o con l’uso di slitte in inverno. A causa di questa difficile situazione ambientale erano di fatto impossibili operazioni su vasta scala e il corpo di spedizione alleato dovette limitarsi ad azioni di piccoli reparti, con numerose ricognizioni a vasto raggio. Al tempo stesso, la ferrovia, in teoria elemento strategico di primo piano, era in un pessimo stato di manutenzione e spesso inutilizzabile o comunque funzionante solo a singhiozzo. A causa delle dure condizioni climatiche, il principale problema per i militari alleati furono le malattie, in particolar modo congelamenti e scorbuto, da cui pare però che i soldati italiani fossero relativamente al sicuro grazie alle loro scorte di medicinali. Ad ogni modo, igiene e alimentazione furono sempre al centro delle attenzioni del comando italiano. In particolare è interessante notare come inizialmente ai soldati fosse distribuito lo stesso rancio dato ai commilitoni inglesi, il che tuttavia non riscosse molto favore e provocò una serie di relazioni approfondite sulle reali necessità alimentari e sanitarie dei soldati italiani. Veniamo ora alle operazioni vere e proprie. Per quanto riguarda gli italiani, i reparti erano stati avviati, come detto in precedenza, tramite il porto francese di Le Havre nel corso dell’agosto 1918, da qui via mare fino a quello inglese di Southampton e poi da Newcastle il 26 agosto per l’ultimo tratto fino in Russia. A questo punto va evidenziato che nel corso della traversata molti uomini si ammalarono di influenza, la quale causò la morte di 15 soldati entro la metà di settembre. Episodio questo, che avrebbe influito negativamente sul giudizio del generale inglese Maynard nei confronti delle qualità fisiche dei militari italiani. Le possibilità d’impiego degli italiani furono all’inizio limitate dal fatto che gran parte dell’armamento fu messo a disposizione dal Comando alleato utilizzando materiali russi e britannici di cui gli italiani non avevano esperienza pratica e per tale motivo furono persi diversi giorni per l’addestramento. Il 20 settembre fu costituito un primo reparto mobile, la Colonna Savoia, forte di circa 220 uomini, che avrebbero dovuto costituire l’elemento offensivo a disposizione del Corpo di spedizione italiano, lasciando agli altri militari dei semplici compiti di presidio. La decisione seguiva un’apposita direttiva del comando alleato che stava procedendo alla formazione di diverse colonne mobili. Le operazioni del Corpo di spedizione italiano erano seguite con attenzione dall’ambasciata italiana, ora insediata a Arcangelo, che doveva mantenere i contatti sul piano diplomatico con gli Alleati e che poteva avere un quadro chiaro dell’impegno complessivo in Russia. Il 18 ottobre 1918 Maynard ordinò il trasferimento degli italiani a Kola, mentre a Murmansk rimasero solamente il comando e il personale strettamente necessario alla sua difesa. Il 5 novembre i due settori di Murmansk e Arcangelo furono ufficialmente separati e il generale Maynard assunse il comando della regione di Murmansk, proprio mentre il contingente alleato cresceva fino a raggiungere le 15.000 unità. Le notizie della resa della Germania provocarono manifestazioni di gioia tra i soldati ma chiaramente non significarono la fine della missione, dato che ciò avrebbe significato, in quel momento, abbandonare la Russia in mano ai bolscevichi.

Soldati del corpo di spedizione alleato in Murmania

Soldati del corpo di spedizione alleato in Murmania

I nostri soldati nella guerra civile russa dalla parte dei “bianchi”

Iniziava quindi ora l’utilizzo del nostro corpo di spedizione nell’ambito della guerra civile russa, a fianco dei “bianchi” in funzione anti-bolscevica. In questa fase e nei mesi successivi, a fronteggiare direttamente le forze alleate si trovava la 19^ divisione fucilieri sovietica che tuttavia, nonostante il nome altisonante, secondo le informazioni a disposizione dei comandi alleati nel novembre 1918 non disponeva di più di 2.000 uomini. Non vi furono però novità di rilievo in quelle settimane. La vita dei soldati italiani era scandita da lunghe e noiose corvée, che preoccupavano particolarmente Sifola, il quale temeva che potessero deprimere lo spirito combattivo delle sue truppe. L’arrivo di forze bolsceviche, per quanto minaccioso, non appariva ancora imminente. Nonostante ciò, il colonnello Sifola nel marzo del ‘19 si era già convinto della forza dei bolscevichi e scriveva a Roma che il loro successo era da ascriversi all’uso del terrore e a un programma chiaro, che sapevano imporre laddove mancava una adeguata controproposta da parte degli Alleati. Per tali motivi e per evitare una pericolosa crisi motivazionale, Sifola proponeva di rimpiazzare le truppe attualmente schierate in Russia con dei volontari, che si sperava potessero avere maggiori motivazioni e un più alto livello combattivo. Intanto tra il marzo e l’aprile del 1919 per la prima volta giunsero in Murmania rinforzi per il Corpo di spedizione italiano per rimpiazzare i militari prossimi al congedo. In aprile si assistette però anche ad una serie di azioni offensive da parte alleata e fu lanciata un’operazione per l’occupazione dell’area del lago Omega, mentre il 1 maggio il comando del Corpo di spedizione alleato veniva spostato a Kem, in Carelia, nella parte occidentale del Mar Bianco, mentre  la Colonna Savoia venne inviata nella vicina località di Ostrov Popov. Il resto del contingente italiano fu invece impegnato nei lavori per la realizzazione di una ferrovia a scartamento ridotto e in compiti di presidio alle infrastrutture. Il 4 maggio la Colonna Savoia ricevette l’ordine di muovere verso Urosozero, duecento chilometri più a sud, nel quadro di un’operazione condotta da una brigata inglese. Le truppe si istallarono nel villaggio da cui partivano in azioni di perlustrazione ad ampio raggio. Il 21 maggio la Colonna Savoia si spinse ancora più a sud, partecipando, assieme a truppe serbe e inglesi, ad un’azione in località Medveja Gora, nei pressi del lago Onega, dove incontrò scarsa resistenza da parte del locale presidio sovietico. La Colonna Savoia rimase quindi schierata a difesa della zona fino al 28 maggio. Nei giorni successivi essa svolse compiti di presidio del territorio fino a quando il 13 giugno fu ordinato di ritornare a Medveja Gora, su cui si stavano concentrando forti nuclei ostili. Il 26 giugno, italiani e inglesi attaccarono le posizioni sovietiche vicino al villaggio e riuscirono rapidamente a mettere in fuga il nemico. Pochi giorni dopo i sovietici tornarono ad attaccare senza riuscire però a riprendere il controllo della piccola località. La conquista e la successiva difesa di Medveja Gora fu l’unico fatto d’arme di cui furono protagonisti gli italiani. Il morale di questi nostri soldati era ancora buono ma, dopo un anno di servizio nel nord della Russia, cominciarono a emergere segni d’insofferenza solo parzialmente attutita dal costante impegno del colonnello Sifola per garantire buoni alloggi e vitto abbondante. I rapporti con la popolazione locale erano anch’essi buoni e venivano spesso esaltati nei rapporti stilati da Sifola, nei quali sembra riproporsi il noto stereotipo, spesso abusato dai militari italiani anche nel secondo conflitto mondiale, dell’amicizia e della simpatia nei loro confronti da parte delle popolazioni in zona di guerra. Senza scendere nei dettagli di una discussione forse troppo complessa in questa sede, possiamo forse ammettere che fosse più facile per gli italiani intendersi con i civili russi di quanto non lo fosse per inglesi e francesi. Al tempo stesso, se pur confermate, simili affermazioni non hanno assolutamente influito sul ruolo dei reparti italiani sul campo. Nel frattempo la posizione delle forze alleate ad Arcangelo si era fatta precaria e aveva reso evidente la necessità di ripensare la missione nel nord della Russia iniziando a considerare l’opportunità di un progressivo ritiro. In effetti, tra le truppe schierate a difesa di Arcangelo, specialmente tra i francesi, vi erano stati pericolosi segnali di cedimento morale, dovuti essenzialmente alla stanchezza per il lungo e difficile servizio lontano da casa. Fino a quel momento le perdite registrate dal Corpo di spedizione italiano erano state di 22 uomini, di cui solamente 3 in combattimento. La fine della Grande Guerra e i molti dubbi, anche presso l’opinione pubblica, per il mantenimento dell’impegno in Russia spinsero dunque ben presto i governi alleati a ordinare il ritiro delle proprie forze dalla Murmania. Il governo italiano era anch’esso favorevole al ritiro. Su questa decisione pesava anche il malcelato timore che i soldati italiani venissero contagiati dalle idee bolsceviche. Si tratta di una decisione particolarmente dibattuta su cui i vertici militari e politici si confrontarono a lungo. Inizialmente si era infatti pensato, come detto in precedenza, all’invio di volontari, proposta che però suscita perplessità tra i vertici militari, soprattutto per i problemi di bilancio che questo avrebbe comportato. All’inizio del maggio 1919 il nostro Ministero della Guerra scrisse a quello degli Esteri ritornando sulla questione del morale delle truppe in Murmania e nell’Estremo Oriente russo, altro fronte sul quale eravamo impegnati. Furono discusse le condizioni di disagio in cui si trovavano i corpi di spedizione in Russia proponendo che fossero ritirati al completo e nel caso l’Italia avesse dovuto ancora mantenere una rappresentanza di proprie truppe, che queste venissero sostituite con i già citati volontari, cui offrire migliori retribuzioni. Il Ministero della Guerra aveva nel frattempo studiato anche uno schema di decreto relativo ai provvedimenti da attuarsi per l’arruolamento di questi volontari che, dato l’effettivo dei due corpi di spedizione, sarebbero ammontati a circa 3.000 uomini. Nonostante ciò, i vertici dello Stato Maggiore erano piuttosto scettici rispetto all’idea di mantenere forze italiane in Russia. Il generale Diaz, il quale non era per principio contrario all’idea dei volontari, aggiungeva che, dato che le altre potenze avevano già compiuto spostamenti per il ritiro di parte delle proprie truppe senza interpellare nessuno, sarebbe parso più conveniente procedere gradualmente alla riduzione dei contingenti italiani, specialmente nell’Estremo Oriente dove sembrava che gli inglesi avessero già proceduto al ritiro di parte dei propri battaglioni. Il ministro della Guerra così come il capo di Stato Maggiore, nel corso del mese di maggio del 1919 finalmente iniziarono a prendere seriamente in considerazione un ritiro come migliore soluzione alla questione. Anche per resistere alle pressioni politiche del ministro degli Esteri, i vertici militari preferirono in questa fase parlare non di ritiro ma di avvicendamenti e di graduale riduzione del personale attraverso i congedi degli appartenenti alle classi più anziane. Il generale Enrico Caviglia, allora Ministro della Guerra, aggiunse inoltre, in una nota del 16 giugno, che attraverso il ricorso a graduali riduzioni sarebbe comunque rimasta in Murmania una rappresentanza dell’esercito italiano, finché non fossero stati dati ordini per il rimpatrio definitivo e totale del nostro corpo di spedizione. Per risolvere la questione della differenza di opinioni tra Sonnino e i vertici militari, il 20 giugno Diaz si rivolse direttamente al presidente del Consiglio Orlando chiedendo che fosse proprio il capo del governo a prendere un’iniziativa per risolvere la questione. In quelle settimane d’estate del 1919 la questione fu finalmente risolta con la decisione di procedere, seppur lentamente al ritiro dalla Murmania. Il 28 luglio il colonnello Sifola si imbarcò per rientrare in Italia insieme a un piccolo contingente, mentre il resto del Corpo di spedizione italiano sarebbe stato rimpatriato in agosto, per dare il tempo ai reparti schierati a Medveja Gora di ritirarsi. Nei giorni successivi solamente una piccola parte delle truppe italiane rimase in Russia in attesa di un nuovo trasporto. Al loro rientro questi soldati furono però considerati con sospetto dalle autorità militari, le quali temevano che avessero subito “il contagio bolscevico”. Al loro arrivo nel porto di Le Havre e prima che  fossero inviati in treno in Italia, fu inviato loro il maggiore, prossimo ai gradi di tenente colonnello, Ubaldo Scannagatta per investigare sulla reale situazione delle truppe. L’ufficiale evidenziò nel suo rapporto che gli uomini del Corpo di spedizione avevano effettivamente un atteggiamento apertamente critico nei confronti dei propri ufficiali. Al tempo stesso egli ammetteva però che non vi erano indizi di un reale contagio bolscevico e che i soldati potevano tranquillamente rientrare in Italia. Lo stesso generale Ugo Cavallero, al tempo rappresentante italiano presso il Comitato inter-alleato di Versailles, si recò a Le Havre per verificare lo stato delle truppe e affermò che si trattasse di un reparto “normale”, dando così il proprio beneplacito al rimpatrio, suggerendo però che i soldati non fossero inviati a Torino, bensì in qualche località minore per poter meglio controllare il loro comportamento al rientro in patria. Anche il colonnello Sifola, in una relazione inviata al Ministero della Guerra il 12 settembre, avrebbe difeso l’affidabilità politica dei suoi uomini ribadendo i meriti acquisiti sul campo al fianco delle altre forze alleate. Per il resto del tragitto, il rientro si svolse quindi nei tempi previsti e senza particolari problemi.

Carabinieri Reali in Russia nel 1918

Conclusioni

In conclusione, possiamo dire che, senza ombra di dubbio, il contributo dei soldati italiani a Murmansk fu importante sul piano militare, viste le limitate forze dell’Intesa impiegate in quel teatro operativo. Al tempo stesso, il nostro Corpo di spedizione assolse anche un compito politico, ovvero quello di rappresentare l’Italia come parte attiva dell’alleanza e come partner di pari grado rispetto a Gran Bretagna e Francia. In pratica, una riproposizione dell’intervento piemontese nella guerra di Crimea di settant’anni prima. Un aspetto fondamentale, soprattutto per Sonnino, formatosi negli ambienti della Destra Storica, il quale riteneva che lo status di grande potenza dell’Italia andasse affermato in ogni occasione, compresa ovviamente la gestione della crisi russa in condizione di parità rispetto al ruolo degli alleati. Sotto questo punto di vista, nonostante le insistenze del Ministro degli Esteri, non possiamo dire che si siano raggiunti particolari risultati e forse l’insoddisfazione che qualche volta emerge dai rapporti di Sifola sull’impiego dei suoi uomini nasce proprio da un certo senso di inferiorità. L’intervento in Murmania va però anche letto alla luce del complesso degli impegni assunti dall’Italia fuori dalla nostra Penisola, come nei Balcani, in Palestina o anche in Siberia, attraverso il ricorso ad ex-prigionieri austro-ungarici di origine italiana. Sotto questo punto di vista, questi contingenti hanno senza dubbio contribuito a far sentire gli italiani parte di un grande impegno militare inter-alleato, senza tuttavia offrire alcuna conseguente contropartita in termini politici, come ben evidenzia il ruolo effettivamente ricoperto dall’Italia alla conferenza di pace di Versailles.

DANIELE RAMPAZZO

rampazzo.daniele@uniroma1.it

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